Come fa una persona che aveva intrapreso un percorso del tutto diverso a ritrovarsi health coach?
Mettevi comodi perché è una storia accidentata e piena di curve.
Nasco a Salerno nel 1985 e una delle prime cose che imparo a fare è leggere: la lettura mi apre mondi, mi appassiona, plasma quello che diventerò come persona. Il mio percorso scolastico procede senza indugi fino al liceo classico, dove per la prima volta entro in depressione, ma con l’energia dei 15 anni mi riprendo in breve grazie a una brava psicologa. Inizio a incuriosirmi della materia, comincio a leggere qualcosa nel tempo libero. Durante il penultimo anno di liceo vengo folgorata dalla mia grande passione: il teatro.
Decido, con la pertinacia del Capricorno che sono, di dedicarmi anima e corpo al teatro, scontrandomi purtroppo con le obiezioni paterne al riguardo: niente accademia, avrei dovuto prendere una “vera laurea”.
Qui è dove il mio interesse per la psicologia si manifesta da hobby a possibile carriera per la prima volta, perché a quel punto valuto di intraprendere gli studi per poter diventare una psicologa: la seconda obiezione paterna mi chiude anche questa strada, perché nella mia città non c’era la facoltà di Psicologia e lui non voleva che andassi a studiare altrove.
I miei interessi mi conducono allora verso la facoltà di Lettere Moderne, convinta che almeno avrei studiato qualcosa che mi piaceva mentre aspettavo di poter calcare le scene seriamente.
Per una serie di sfortunati eventi, o forse è stato l’universo, questo agognato momento non è mai arrivato. Non solo: alla “tenera” età di 25 anni devo affrontare il divorzio dei miei genitori e il conseguente crollo della figura paterna, assoluto gigante nella mia vita fino a quel momento (non elaborerò al riguardo perché ci vorrebbe un libro, ma scommetto che alcuni di voi avevano già avuto dei sospetti sul fatto che non fosse sanissima).
A questo punto entro in depressione per la seconda volta, con un’intensità che mi abbatte completamente. Entro in uno stato di apatia generale, incapace di terminare gli studi o di fare qualunque altra cosa. Per fortuna trovo una valida terapeuta e dopo tre anni posso dire di essermi ripresa: mi laureo, trovo la persona con cui voglio condividere la mia vita e iniziamo una convivenza.
Sembra tutto risolto, se non fosse che mi resta un senso di incompiuto a livello personale. Le cicatrici sono profonde e non ben rimarginate, nonostante il matrimonio nel 2017 (il primo anno utile dall’approvazione della legge sulle unioni civili) mi riempia di gioia e mi carichi di energia, l’amore può tanto ma non può tutto (per fortuna, o sarebbe una responsabilità enorme).
Mi ripiego in me stessa, anno dopo anno e un curriculum dopo l’altro inviato senza risposta, smetto di nutrire speranze: cercavo di entrare nell’editoria per dedicarmi almeno ai libri, ma le porte di quel mondo sembrano chiuse a doppia mandata. Mi rassegno. Poco alla volta la rassegnazione torna a colorarsi del familiare nero della depressione, alla quale questa volta si aggiunge l’ansia.
Era una novità. Un’ansia mai provata prima, vivo con il pensiero costante della morte, della perdita, al punto che mi sembra normale non fare quasi più nulla. Questi anni trascorrono tutti uguali, infatti non saprei dire cosa sia successo in uno o nell’altro, ma il picco di malessere me lo porta la pandemia.
All’inizio il lockdown è una totale liberazione: mi toglie l’ansia dalle spalle, è una sensazione bellissima. Sono a casa, al sicuro, niente può succedere. La mia depressione però peggiora vertiginosamente dopo i primi mesi. Avevo negato che quella che stavo vivendo, che tutti stavamo vivendo, fosse una situazione negativa, dimenticando che due mali sommati non fanno un bene.
Infatti pago il prezzo più alto in termini di salute mentale e nel 2022 inizio finalmente a prendere un antidepressivo. Dopo un anno, assieme a un nuovo percorso di terapia, riesco finalmente a risollevarmi. Mi sento come se fossi uscita da un coma, come se dovessi imparare nuovamente a camminare.
L’universo, però, ha in serbo qualcosa: un pomeriggio d’estate, mentre mi dedico a fornire supporto telefonico ai miei fratelli come faccio sempre, una mia amica mi ascolta parlare e mi dice una cosa che sulle prime non capisco.
“Hai mai pensato di fare il coach?”
Io non avevo idea di cosa fosse un coach, ma lei non è italiana e al contrario di me ne conosce già diversi, che si occupano di svariate nicchie. Mi spiega che, a suo dire, io ho un talento naturale e potrei studiare per affinarlo, che questo lavoro sarebbe molto adatto a me. La ringrazio ma resto confusa, non avevo idea che esistesse un lavoro del genere e devo capirne di più.
Trascorro il resto dell’estate a documentarmi e alla fine prendo una decisione: mi iscrivo al Master universitario in Health coaching e programmazione Neuro Linguistica dell’università di Chieti – Pescara.
Perché Health coaching? Semplice: dopo una giovinezza rovinata dall’ossessione per la performance ho imparato che non c’è niente di più importante del benessere, fisico e mentale. Avendo provato sulla mia pelle i danni devastanti della depressione e dei disturbi alimentari (sì, ci sono anche quelli, ma non volevo che il racconto virasse sul Dickensiano), mi sarei sentita un’ipocrita a focalizzarmi sulle più note (e remunerative) nicchie di business o career coaching, le mie priorità erano cambiate e volevo apprendere degli strumenti che mi permettessero di aiutare altri che avessero attraversato il mio stesso inferno (o uno simile).
Il 2023 è l’anno della svolta: il master non è solo un master, ma si rivela anche un utilissimo percorso personale, che mi aiuta a vedere chiaramente dove voglio andare. Termino il percorso nel 2024 e divento un coach, con lo sguardo già in avanti al prossimo obiettivo: tornare alle origini e prendere finalmente quella laurea in Psicologia rimasta nel cassetto degli incompiuti. Attualmente ci sto lavorando.
Questo è il percorso assolutamente non lineare che mi ha portato dove sono adesso, a conferma del fatto che le strade tortuose conducono ai panorami migliori.